Io a Vittorio ci dovevo pulire la stanza. Lui avrebbe dovuto aiutarmi, ma non lo faceva. Credo non approvasse. Il muro della sua stanza era una crosta di anni di sputazzi di catarro. Noi in Piemonte li chiamiamo scraci. E l’azione dell’espettorare la chiamiamo scraciare. Vittorio scraciava in continuazione. Ed io con lo scalpello grattavo via i suoi atavici scraci dal muro della sua stanza. Vittorio una volta era un imbianchino, forse per questo ora si divertiva a rallegrare il muro della sua stanza. La parete era quella di fronte al letto d’altronde. Comoda per la mira e bella alla vista. Vittorio fumava come un turco. Si svegliava la mattina presto e prima di uscire per comprarsi il suo pacchetto di sigarette ti chiedeva "C’hai l’ultima?". Quell’ultima era l’ultima che lui ti chiedesse di offrirgli, anche se in realtà era la prima di una lunga serie. Poi usciva, si comprava le sue sigarette, stava fuori un paio di ore, giusto il tempo di finirle e rientrava. Suonava il campanello, tu gli aprivi la porta e lui "C’hai l’ultima?". Non diceva altro. Qualsiasi cosa tu gli chiedessi lui ti rispondeva solo "Non zo". Come mi chiamo? "Non zo". Sei andato a bere il caffe? "Non zo". Come stai? "Non zo". E rispondeva solo ad un tormentone che gli avevano inculcato gli infermieri e che noi avevamo ereditato. Ma cosa c’hai in testa? "I conigli."
Ecco: C’hai l’ultima, Non zo, e I conigli erano le sue uniche forme di comunicazione, oltre a due occhi che esprimevano di tutto, soprattutto una follia felice.
Io a Vittorio ci dovevo insegnare a collaborare nelle pulizie. Aiutarlo a rifarsi il letto, o per lo meno a pulire gli scraci che lasciava nel corridoio. Ma credo non approvasse. Quando rifacevamo il letto in due, lui stava immobile con il lenzuolo in mano ed io dall’altra parte tentavo di spiegargli. Ora, l’obiettivo non era tanto rifarci il letto, ma stimolarlo, aiutarlo ad essere autosufficiente, il cosiddetto progetto autonomia. Questo era il mio lavoro. Quindi potevi starci anche due ore con lui e il letto. Ora, Vittorio, quando facevamo il letto, teneva il lenzuolo in mano, immobile, sorrideva a te o nel vuoto e non faceva altro. Poteva starci per ore. Dai metti sto lenzuolo sul letto, no? "Non zo".
Cazzo, non è possibile che non sai niente. Io mi chiamo M., devi solo ripeterlo, no? Come mi chiamo? "Non zo." Merda, ma che hai in quella testa? "I conigli". Dai metti giù il lenzuolo sul letto, che in 5 minuti lo facciamo. Silenzio. Immobile. Passavo ai compromessi: se mi aiuti a fare il letto ti do l’ultima. "Non zo". Dopo un’ora di non zo e a vederlo con le lenzuola in mano, ero esausta e il letto ce lo rifacevo io. Aveva vinto lui. Chiamalo matto.
A Vittorio dovevo insegnarli che ogni tanto si deve scopare anche il pavimento. Ma credo non approvasse. Gli porgevo la scopa, lui la stringeva e iniziava a scopare tenendola a dieci centimetri da terra. Scopava l’aria e ci stava per ore. E la stessa cosa col mocio quando gli chiedevo di pulire gli scraci. Lavava l’aria. E cedevo io, un po’ mi incazzavo, ma soprattutto ridevo, e lo lasciavo perdere. Aveva vinto ancora. Chiamalo matto. C’era davvero da chiedersi chi fosse il matto in un ipotetico mondo non convenzionato, io che dovevo "educarlo" a fare il letto o lui che non ne voleva proprio sapere.
Vittorio l’ho incontrato anni dopo sotto il porticato, quando, tornata a lavorare a Collegno, ma nella sezione femminile, stavo facendo una passeggiata. Un piacere enorme! Hei Vittorio, come stai? "Non zo". Ma cosa c’hai in testa? "I conigli". Vittorio, come mi chiamo? "Marinella".
Chiamalo matto.
Quindici anni di lavoro sociale, in quasi tutti i campi e in diverse, ma alla fine tutte uguali, cooperative di tipo A, credo che necessitino di una pausa sabbatica, perché rischi, banalmente, di fare male a te e a quelli che stanno attorno a te. Quando non sopporti più le stereotipie dei cosiddetti diversamente abili, quando i minori a rischio ti stanno stretti perché non ce la fai più durante il turno della notte a raccontare nove favole diverse in nove stanze diverse, quando gli adolescenti con disturbi di personalità di tipo borderline ti ricordano troppo te stessa e ti senti responsabile di un loro miglioramento o peggioramento, quando arrivi a casa distrutta dopo 12 ore di turno e la ragazzina ti chiama sul cellulare disperata e vuole parlare solo con te, quando sei di reperibilità e ti chiamano alle quattro di notte e devi andare a recuperare due ragazzini fuggiti, sopportando pure i carabinieri, quando ti viene da prendere a ceffoni la psicotica che urla ininterrottamente dal mattino fino alla sera, quando non ne puoi più di pulire merda, cambiare pannoloni, fare docce, barbe, tagliare unghie dei piedi e vedere piselli, fiche e tette di ogni genere, allora credo sia il momento di dire basta e staccare. Così ho fatto io, avevo bisogno di un lavoro fisico, solo fisico e basta. Forse un giorno riprenderò, ma so che ora è ancora presto. Per ora mi tengo stretti due ricordi fortissimi, la prima e l’ultima esperienza. Prima e ultima, chissà perché, forse non è solo una coincidenza. La prima, nel manicomio di Collegno, con i veri matti, quelli proprio fuori, quelli che, dopo 40 anni di istituzionalizzazione, hanno talmente interiorizzato la sofferenza, da non lasciarne trasparire neppure un po’ e riescono a farti solo ridere, o al massimo incazzare. L’ultima, dilaniante, con gli adolescenti definiti borderline, ma in realtà semplicemente ragazzi con una sensibilità ed intelligenza estrema, che si ribellano a modo loro ad una profonda sofferenza, che tu introietti per forza di cose.
Questo blog era nato per parlare di questa mia esperienza nel sociale, in chiave antipsichiatrica, ma non solo, poi, un po’ perché non ne ho voglia, un po’ perché mi viene più facile cazzeggiare, sto parlando di tutt’altro. E poi c’è l’annosa questione morale che mi sono sempre posta. E’ corretto raccontare le loro storie? Non è un po’ svenderli? Potrei parlare di argomenti generali, di come assistenti sociali, psicologi ed educatori siano superficiali nel togliere alle famiglie i loro figli, di come il sistema abbia contribuito a farmi scoppiare, e forse lo farò, ma ora non ne ho proprio voglia. Preferisco raccontare qualche particolare meno triste, almeno per me. E chissene se forse questo è svendere. In fondo è come se raccontassi di vecchi amici.
Ti prego chiunque tu sia
com’è che sei così cieco
non vedi c’è il fuoco sulla collina