Lo puoi vedere se googling about it. L’antipsichiatria sembra aver stancato gli attivisti della comunicazione. Siti che non esistono più, altri che stanno appesi al web con vecchie documentazioni, mostre, fotografie, rassegne di libri e nessun aggiornamento. Solo un paio resistono ostinati, e sono, of course, quelli gestiti da chi realmente è colpito dal ‘problema’. Un po’ come la lotta NOTAV, che, dopo lo spettacolare e ossessivo fuoco di paglia a livello nazionale, è tornata ad essere relegata alle realtà locali. E un po’ come la guerra, che in ogni momento e contesto la si tiri fuori, ha sempre il suo impatto. Sei contro la guerra, ma è lontana. Troppo lontana per poterla capire e troppo lontana per poterla controllare. Come puoi fermare una guerra globale? Manifestazioni, sovradosaggio di informazione e controinformazione, attivisti che bloccano i treni che trasportano armi, qualche pazzo che ci va a vivere dentro, nuovo governo di sinistra. Nulla cambia. Quindi, tant’è: "think global, act local". Ovvero: se proprio devi scassarti le balle per ottenere il nulla, almeno prova a farlo ‘local’, fallo per te. Per cui, in questo milionesimo blog, nato solo perché mi serve e che non vuole rappresentare altro che non me stessa, mi limito a raccontare qualcosa di locale, molto locale
1994. Ai tempi lavoravo in un circolo ARCI e l’Einaudi ci aveva regalato scatoloni di libri che ci eravamo spartiti. Il primo che lessi fu "Portami su quello che canta". Raccontava la storia del primo processo ‘vinto dai malati mentali’ contro uno stimato e famoso psichiatra, tale Dr. Coda. Fantasy. In realtà il processo fu portato avanti dai familiari e dalla Guidetti Serra, avvocato torinese di spicco fra le file del movimento antagonista dei settanta.. Quindi..col cazzo che i matti avrebbero avuto il potere di infilarsi attivamente e rappresentarsi nelle maglie della giustizia. Col cazzo che avrebbero vinto questa lotta. L’hanno vinta le famiglie e il movimento antipsichiatrico. Act local, solo dove puoi. Comunque, la storia in sintesi era questa: un infermiere dell’allora manicomio di Collegno, malato di cancro e sul letto di morte in ospedale, chiama al capezzale la famiglia di Giovanni DC., internato a Collegno, per confessare loro sevizie e atrocità subite dal figlio. Giovanni, a differenza della maggior parte dei poveracci rinchiusi in manicomio, allontanati dalle famiglie per vergogna o per povertà, è figlio di una famiglia borghese, che nella psichiatria e nell’istituzione manicomiale ci credeva davvero, o almeno così si narra. E cosi viene ricoverato all’età di 17anni, quando, studente di ragioneria, si ‘ammala di esaurimento nervoso’. Non ne uscirà più, peggiorando giorno dopo giorno. Ordunque, l’infermiere pentito racconta alla famiglia D.C. episodi di sevizia nella sevizia. Nel libro non viene condannata tanto la coercizione psichiatrica, con i suoi violenti strumenti terapeutici, ma piuttosto il sadico abuso di questi da parte del Dr. Coda. L’elettroshock usato non come metodo terapeutico, ma come strumento punitivo. Elettroshock al pisello di Giovanni, considerato un masturbatore ossessivo, elettroshock per i più ribelli, elettroshock per chi disturba perché canta troppo. I D.C. denunciano il medico e con l’appoggio di altre famiglie e del movimento antipsichiatrico vincono il processo. Si condanna lo psichiatra per violenze, ma certo non l’istituzione. Pimpumpam, tutti felici e contenti. I matti hanno vinto e Coda viene pure gambizzato da L.C. Tié. Vabé, dico io, meglio di niente, c’è chi dice che la Rivoluzione si deve costruire giorno dopo giorno. E’ sempre il 1994 quando, bisognosa di fare l’infermierina a me stessa, decido, come da buon manuale psicologico help yourself, di farla per gli altri, quelli che, mi sembra, stanno peggio di me. Inizio a lavorare nel manicomio di Collegno. L’impatto è..da togliere il fiato, surreale. Mai mi ero immaginata che il manicomio fosse così. Mai avevo pensato che potessero esistere realtà del genere. E’ una cittadella nella città. Il bar, il centro sociale, l’ex obitorio, l’ex lavanderia, parchi bellissimi, cameroni, camerette, vasti corridoi lunghi chilometri, sporcizia, gatti, molti gatti, sbarre alle finestre ampie e luminosissime, gente buttata qui e là persa dietro i cazzi propri. Io sono destinata al reparto "7 Maschile" e lì ci incontro Giovanni D.C., disteso sopra un tavolo in cucina, la testa appoggiata al palmo della mano, le gambe che si intrecciano delicatamente, gli occhi trasognati e sorridenti, come fosse una statua. Ormai è vecchietto, centoventi chili per uno e novanta di altezza, con la forza di sollevare una lavatrice in funzione e buttarla fuori dal finestrone della lavanderia. E’ completamente autistico, ripete solo alcune delle tue ultime parole e le frasi "Il dottorino Coda mi dà la corrente elettrica" e "Me la dai una sigaretta?". E’ l’unico a non avere la gestione delle proprie sigarette, perchè ne aspira mezza alla volta, ne fuma una di seguito all’altra e finisce il suo pacchetto in un paio d’ore. Al "7 Maschile" si sta applicando e cercando di rendere realmente effettiva la 180/1978 di Basaglia. E’ appena avvenuta la sostituzione del personale infermieristico col personale non medico. Beh almeno questo è reale: siamo tutt’altro che medici, siamo peruviani, marocchini, ex tossici, laureati in lettere che non trovano di meglio. Tutto, tranne che specializzati professionalmente. L’Associazione subentrata al personale ospedaliero si chiama an-Arché e ci riunisce tutti, matti e ‘supporter’. Ci riunisce proprio tutti. Un’orizzontalata della follia. Il presidente è un matto non tanto matto. Il segretario è un matto un po’ più matto. Chi prende nota del tuo orario di lavoro, entrata ed uscita, ritardi e assenze, è un matto ancora più matto. Le riunioni organizzative si fanno con loro. Anzi con noi, i matti. Devi chiedere ovviamente permesso prima di entrare nelle loro stanza, perchè tu sei uno di loro, non puoi fare gruppetti fra supporter, perchè potrebbero delineare il confine follia norma, ruolo del matto e ruolo dell’operatore.
Devi vivere la follia, devi condividere la follia.
Una figata radical-chic. Per noi, per loro, o per tutti noi?
Una giornata in ospedale
G.G. – Reparto Marro
(Reparto dei tranquilli)
Manicomio di Racconigi (CN)
In sezione sveglia alle sei; alle sei e mezza al lavoro in cucina.
Il mattino in questi giorni è molto freddo, ma in breve ci siamo; una tazza di caffé o caffelatte, un po’ di respiro, quattro passi fuori nell’aria fredda…fanno piacere.
Si riprende a lavorare fino alle undici, poi si pranza con molto appetito, spensierati. Qualche nuvoletta mi passa tuttavia per la testa: mal di fegato, obesità, colesterolo, vene che si fanno strette.
Penso: siamo o non siamo in manicomio, regno delle allucinazioni?
Ritorno tranquillo. Dopo si esce per la ricreazione sul piazzale della fontana.
Nella vasca non si vedono pesci. Perché? Penso: avranno freddo, però anche nascosti sono sempre nell’acqua; forse non si lasciano vedere per modestia
o per la recente celebrità, che è calata loro addosso, d’essere stati i progenitori degli uomini. Le scimmie fanno il muso, ma questi pesci devono essere dei deviazionisti. Non hanno partorito nulla di simile.
Sono le dodici, escono gli operai, poi incomincia la sfilata bianca.
Non è carnevale. Sono le suore, le infermiere e gli infermieri.
Naturalmente sono le infermiere che attirano di più l’occhio.
Sono bionde, brune, tonde e snelle da fiera dei sogni.
Sospironi prorompono dai nostri cuori disamorati e sconsolati dopo tanta privazione. Ma forse ci sbagliamo, che siano solo creature da sogno?
E’ più difficile andar sulla luna.
Hanno il nostro stesso cuore e forse qualcuna desidera la nostra mano,
almeno una. Siamo o non siamo più rari dell’altra specie e quindi più preziosi?
E’ necessario pensarci bene. Sono così timide!
Tornata la calma dopo quel venticel di giovinezza, un po’ di giornale radio.
Finito questo piacevole intermezzo, si riprende a lavorare con meno fretta del mattino. Alle diciassette si cena ed alle diciotto si ritorna in sezione.
Svaghi diversi, televisione.
Per sentire gli altri bisogna star zitti noi. Una bella invenzione per far tacere le lingue lunghe! Si distribuiscono le medicine serali di tutti i colori e dagli svariati
ed indicibili effetti. Per saperlo bisognerebbe provarle tutte. E tutte assieme, nemmeno chi le ha fabbricate potrebbe immaginarne gli effetti.
Una sostanza che tira in qua, un’altra che tira in là, una in su e una in giù.
Un vero mosaico! In particolare basta dire come si vuole essere: calmato, rilassato, ubriacato, addormentato, insensibilizzato, euforizzato, esilarato..
Le prossime saranno contro le affezioni amorose, anch’esse un po’ responsabili del soggiorno in queste case di salute, poiché, il mal d’amore è malanno psicosomatico "d’anema e core"; quindi non avremo più pene, lacrime, visini
così tristi che spezzano il cuore, dispetti, gelosie e certi brutti propositi.
Soltanto una più cordiale indifferenza.
Poi vengono le gocce, naturalmente "gocce d’oro". Infine il varietà delle iniezioni
con altrettanti semispogliarelli. Queste le fanno, pungenti come le satire, per
svagoterapia degli infermieri, per scaricare la loro tensione nervosa.
Bisogna essere comprensivi! Nessuno si lamenta! Tutti eroi!
Alle diciannove e trenta chi vuole può andare a letto; ha tempo di abbracciare
i cuscini con stile romantico o brutale, pensando, sicuro, pensando solamente..
Non c’è altro a disposizione; col tempo i cuscini saranno forse sensibilizzati
ed allora sarà tutta un’altra cosa!
Alle ventitre, anche quelli che hanno fatto la cura della "tele" se ne vanno a letto a nanna. Dopo la dolce vita della giornata il sonno ci prende con sé.
Che cosa astratta! Eppur ci annulla!
Qualche sogno o nulla; molte giravolte, finché giunge il dormiveglia dell’alba.
Pensieri e pensieri ci passano per la mente; si hanno illusioni, che paiono realtà.
Si desidera naturalmente di star bene senza essere in casa di salute.
Si vorrebbe ridiventar giovani, padroni della propria vita, del proprio avvenire,
essere felici è perché no, con un visino dagli occhi belli. Tutte illusioni.
La sveglia! Il viaggio nella notte è finito. Si rientra nella realtà.
I giorni sono come una girandola, che si ripete ad ogni giro.